DALLA PALESTINA DEL 1924 IL FILM DI PROPAGANDA SIONISTA THE LAND OF PROMISE
IN FONDO AL MARE
DALL’ESPLORAZIONE SCIENTIFICA ALLE FOLLIE DI HOLLYWOOD
IN PROGRAMMA ANCHE IL CAPOLAVORO DI DREYER PAGINE DAL LIBRO DI SATANA, THE PRIDE OF THE CLAN DI MAURICE TOURNEUR CON MARY PICKFORD E SCENOGRAFIE DI BEN CARRÉ
La serata delle Giornate del Cinema Muto di martedì 8 ottobre è dedicata al cinema dell’Uzbekistan, al centro quest’anno di una delle principali rassegne, organizzata con il National Film Fund dell’Uzbekistan e il sostegno della Uzbekistan Art and Culture Development Foundation (Fondazione per lo sviluppo dell’arte e della cultura dell’Uzbekistan).
Il film presentato al Teatro Verdi alle 21 è Moxov Qiz (La lebbrosa), del 1928, con la regia di Oleg Frelikh, la sceneggiatura di Lolakhan Saifullina e ha come protagonista l’attrice Ra Messerer. Il tema è quello della condizione della donna e l’emancipazione femminile. L’adattamento cinematografico è tratto da un romanzo francese, Kamir. Roman d’une femme arabe di Ferdinand Duchene, che venne tradotto in varie lingue, compresa l’uzbeka. Saifullina sposta l’ambientazione dall’Algeria al Turkestan e la tragica storia d’amore non è più̀ tra una donna algerina e un ufficiale francese, ma la storia di una ragazza uzbeka che, secondo l’usanza, viene data in sposa a un ricco mercante. Il film mette in risalto la misoginia di una società̀ sclerotizzata nelle sue tradizioni, e se la rappresentazione della donna orientale oppressa dal dispotico marito feudale è in linea con l’ideologia sovietica, resta il dubbio che non altrettanto gradita all’ortodossia di regime sia stata la concezione di base che a determinare le sorti umane non siano i motivi sociali ma il destino. Da notare l’interessante lavoro del regista Oleg Frelik (nel decennio degli anni Venti alternò alla regia il lavoro di attore) che riempie il film di simboli come nella scena in cui il talismano a forma triangolare viene montata sull’immagine di un triangolo di palle da biliardo che il futuro marito spezza violentemente con un colpo di stecca. La suggestione e la potenza delle immagini vengono sottolineate ed esaltate dalla musica tradizionale che Abror Zufarov e Sobirjon Tuyokov suoneranno dal vivo.
A precedere il film uzbeko, uno dei più̀ interessanti titoli della sezione sui film da identificare, Liebesleid (Le pene dell’amore, DE 1920-1925), un assemblaggio di sequenze che sembrano provenire da un unico lungometraggio, probabilmente un film storico ad alto costo realizzato da una grande società̀ di produzione tedesca. Autore del montaggio, che persegue scopi didattici più̀ che artistici, è il Dr. Hans Schulze, e lo scopo è di contrastare la rilassatezza dei costumi della Repubblica di Weimar.
La mattinata di martedì 8 ottobre inizia alle ore 9 con la rassegna dei film di Griffith alla Biograph, ma l’appuntamento principale è alle 9.45 con Blade Af Satans Bog (Pagine dal libro di Satana, DK1920) di Carl Theodor Dreyer. Di grande valore artistico e potenza espressiva, il film vuole mostrare come la presenza del male (Satana) sia costante nella storia umana. Lo fa attraverso quattro episodi tra loro indipendenti, ambientati in diverse epoche e diversi luoghi storici: la Gerusalemme del tempo di Gesù̀, la Spagna dell’Inquisizione nel XVI secolo, la Rivoluzione francese e la guerra civile finlandese del 1918. Blade Af Satans Bog è il secondo film di Dreyer per la Nordisk ed è una delle più costose del cinema scandinavo del periodo, anche se il regista avrebbe voluto disporre di mezzi ancora più ingenti per realizzare il suo obiettivo. Per la sua struttura, Blade Af Satans Bog è stato spesso paragonato a Intolerance; in realtà la sceneggiatura di Dreyer risale al 1913, tre anni prima che Griffith realizzasse il suo film. Piuttosto sembra che per entrambi il modello sia stato un film italiano del 1912, Satana, di Luigi Maggi, oggi perduto, dedicato alle imprese del demonio in quattro epoche storiche. La proiezione al Verdi si avvarrà̀ del commento musicale eseguito dal vivo al pianoforte da John Sweeney.
Un film che ha delle evidenti connessioni con la tragica realtà dei nostri giorni è The Land Of Promise (Palestina, 1924) del regista Ya’acov Ben Dov, esponente del movimento sionista che si proponeva di riportare gli ebrei in Palestina. L’eccezionale restauro della cineteca di Praga valorizza la bellezza visiva del film con gli affascinanti colori prodotti per imbibizione, e se il valore artistico è fuori discussione, l’evidente fine propagandistico lascia invece più perplessi.
Nel pomeriggio le proiezioni del Verdi riprendono alle 14 con il ciclo che omaggia il lavoro dello scenografo Ben Carré. In programma due film: il primo è il dramma storico Le Huguenot (L’ugonotto, FR 1909), una produzione Gaumont che fu per molto tempo attribuito a Feuillade mentre la regia è di Étienne Arnaud. Più interessante è il secondo, The Pride of The Clan (US 1917) sia per la brillante regia di Maurice Tourneur, che fece coppia con Ben Carrè in più di 30 film, sia per l’interpretazione di Mary Pickford, che un anno dopo avrebbe fondato la United Artists con Chaplin, Griffith e il futuro marito Douglas Fairbanks. Durante la lavorazione del film (una storia di pescatori girata nel New England, che il talento di Ben Carrè trasforma in una credibilissima Scozia) Pickford ha rischiato la vita per l’affondamento della barca su cui si trovava per le riprese, come racconta in una sua autobiografia.
Alle 16 si vedranno tre film marini provenienti dalla Cinémathèque française, il più interessante dei quali è Wonders Of The Sea (Al fondo dell’oceano, US 1922) diretto da J. Ernest Williamson, che utilizza una nuova struttura per immergersi con la macchina da presa fino a una profondità di 12 metri, in anticipo di 40 anni rispetto a Jacques-Yves Cousteau. La spedizione avvenne nelle Bahamas ed era composta dal regista, un pittore e un operatore, oltre a due nuotatori e un bambino che vennero utilizzati per introdurre un elemento di finzione. Era una delle prime volte che l’ambiente sottomarino veniva portato sullo schermo con riprese dal vero in luoghi carichi di significato letterario (Jules Verne) e cinematografico (Georges Méliès). Il connubio tra documentario e finzione consente qualche forzatura, come la presenza di un falso polpo che avrebbe potuto far presa sul pubblico. Purtroppo non ci sono pervenute le immagini dell’immersione di Alexander Bell, l’inventore del telefono (anche se la sua paternità è oggetto di annose controversie, anche legali), che alla bella età di 75 anni volle provare l’ebbrezza dell’immersione. Ci resta comunque una sua dichiarazione secondo cui quell’invenzione era la cosa più meravigliosa che avesse mai visto.
I tre film colombiani in programma alle 17.15 ci fanno conoscere due figure importanti nella storia di quella cinematografia, Vincenzo e Francesco Di Domenico che furono esercenti, distributori, produttori e registi di cinegiornali, documentari e film di finzione nell’epoca del muto. Fondarono inoltre la SICLA (Società industriale cinematografica latinoamericana), che con la Manizales Film Company erano le società di produzione più importanti della Colombia. La Manizales realizzò anche il melodramma oggi in cartellone, Madre (Cile, 1924), di cui rimangono solo due sequenze della durata complessiva di 22 minuti conservati nell’Archivio della Fundación Patrimonio Filmico Colombiano che li ha restaurati nel 1997. Madre fu il primo film della Manizales che ne affidò la regia a Samuel Velasquez, pittore, critico d’arte e scrittore, autore dell’omonimo romanzo con cui vinse nel 1896 un prestigioso premio letterario.
La giornata si conclude con il secondo programma di frammenti femministi raccolti sotto il titolo di “Sguardo Queer, Lingua Lunga e Membra Staccabili” comprendente, fra gli altri, due film indiani, con una splendida immagine del Taj Mahal, e il film italiano della Cines del 1919, La leggenda di Santa Barbara con Lyda Borelli.
I cultori del “camp” si delizieranno infine con Folly Of Vanity (US 1925) di Maurice Elvey e Henry Otto e in particolare con la lunga sequenza della fantasia subacquea con splendide bellezze seminude. Le scene di ballo con 30 ballerini furono curate dal coreografo favorito di Hollywood, Ernest Belcher, e tra i principali interpreti c’è da segnalare Betty Blythe, che aveva scandalizzato il pubblico con un nudo integrale nel film, andato perduto, La regina di Saba.
Per gli incontri con l’autore, martedì 8 alle 17.30 al Ridotto del Verdi, si segnalano quattro pubblicazioni italiane che trattano, rispettivamente, degli strettissimi legami tra Napoli e la comunità italoamericana nel cinema (Giuliana Muscio, Napoli/New York andata e ritorno), del cinema in Sicilia, tema strettamente collegato a una delle sezioni del festival (Franco La Magna, Storia del cinema in Sicilia, 1895-1931), dell’interessante intreccio tra l’Italia e la nascita del cinema in India (Nicoletta Gruppi, Maciste sul Gange. Gli italiani che fondarono Bollywood 1920-1932) e infine di un film girato durante la prima guerra mondiale, Maciste alpino, pellicola di propaganda ma anche una commedia che seppe far ridere gli spettatori proprio di quel conflitto che stava squadernando il loro mondo (Stella Dagna, Maciste Alpino. Sull’ottimismo di guerra).
Le Giornate del Cinema Muto sono realizzate grazie al sostegno della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, del Ministero della Cultura – Direzione Generale Cinema e Audiovisivo, del Comune di Pordenone, della Camera di Commercio Pordenone-Udine e della Fondazione Friuli.
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