THE ARYAN

THE ARYAN
(La fiera domada/Il bandito della miniera d’oro)
William S. Hart (US 1916)

Era il 1909 quanto Hart stava inaugurando The Barrier al McVicker’s Theater di Chicago quando gli giunse un telegramma dalla sorella, sulla costa occidentale: “vieni subito, la mamma sta morendo”. Hart era quello che procurava da vivere alla famiglia, e si sentiva responsabile dello spettacolo, che sarebbe andato a monte senza il tempo necessario ad addestrare un sostituto. Così decise di rimanere. “Forse ho sbagliato. Non so. So solo che era mio dovere andare, teatro o non teatro”.
Sei anni dopo Hart è impegnato in California a fare western per Thomas H. Ince. C. Gardner Sullivan lo sceglie per un cupo apologo morale western dal titolo The Aryan, ma Hart non è contento del personaggio principale, un misantropo “cattivo senza una precisa ragione”. Hart suggerisce così che la sua durezza di carattere debba avere a che fare con una mamma morente, un telegramma da casa, e la decisione di non tornare, che perseguiterà così il solitario eroe. Sullivan scrive quindi la sceneggiatura di ciò che Hart descriverà più tardi come “la più bella storia che Sullivan abbia mai scritto, e uno dei più grandi western mai realizzati”.
Come in tanti altri western di Hart, il protagonista (Steve Denton) arriva dal selvaggio West e si ritrova contro una comunità senza legge. Se la prende con le ragazze del saloon per l’accaduto e giura vendetta contro tutto il genere femminile (“Le donne! Dio mio, quanto le odiava!”): rapisce Trixie la Lucciola (Louise Glaum) e ne fa una schiava nella sua sperduta capanna nel deserto. Passano gli anni, la sua miniera vale una fortuna, ed eccolo comandare in modo brutale e sadico l’accampamento che la circonda, anch’esso fuori dalla legge. Arriva una carovana di pionieri sperduti, che invocano la carità cristiana, un altro gruppo di facili vittime. Il messicano Pete e il resto della banda di Steve approfittano di loro e stanno per assalire le donne, finché un coraggioso innocente ricorda a Steve che malgrado tutto egli appartiene ancora alla razza ariana.
Col senno di poi, è degno di nota che tutta la prima parte del film – quella a cui Hart afferma di avere contribuito direttamente – non abbia nulla a che fare con gli ariani; è l’altra metà, scritta da Sullivan, a dare il titolo al film. Rimane da vedere se Hart fosse consapevole delle radici storiche e del carattere di questa filosofia razziale pseudo-scientifica, ma è certo che Sullivan ne sapeva qualcosa. Il trattamento del tema, squisitamente americano, era stato reso popolare da lavori quali Race Life of the Aryan Peoples (1907) di Joseph P. Widney, un dottore, pastore metodista, ambientalista, cancelliere della University of Southern California ed eminente attivista politico. L’arianesimo di Widney non era basato sul concetto di madrepatria, bensì sull’inesorabile espansione della “razza ariana” in tutto il pianeta, culminante con il trionfale ingresso nella California del Sud.
Nel 1915 la parola “ariano” era approdata sugli schermi cinematografici, soprattutto in una famigerata frase contenuta in The Birth of a Nation. È possibile che la sceneggiatura di Sullivan costituisse un’elaborazione e uno sviluppo ulteriore di quella didascalia, illustrando ciò che Griffith intendeva dire con il termine “diritto ancestrale ariano”. È un legame che Hart aveva probabilmente compreso, visto che la sua scelta iniziale per il ruolo di  Mary Jane Garth non era Bessie Love – ancora poco conosciuta all’epoca – bensì Mae Marsh, diventata famosa per aver preferito la morte al disonore razziale nel grande affresco storico di Griffith.
Con il passare degli anni, quasi tutti i film di Hart per la NYMPC e per la Triangle (1914-1917) furono rimaneggiati e rieditati da vari distributori indipendenti; molti di essi sopravvivono proprio in queste versioni. Dopo una lunga tenitura sugli schermi americani, The Aryan scomparve invece dal mercato nazionale a partire dal 1923, o almeno così fu con il suo titolo originale. L’unica copia finora esistente, conservata dal Museo del Cine di Buenos Aires, è non solo una versione per l’estero, ma anche la riedizione d’esportazione di un film che era stato già distribuito nella stessa area geografica nel 1917 con il titolo El ariano. Un indizio contenuto nel materiale conservato – un inserto di telegramma – indica il 1923 come possibile data di uscita. Quello fu anche l’anno in cui il Motion Picture News parlò della riedizione dei film di Hart per la Triangle, “accuratamente rimontati e rititolati per il pubblico odierno”. Purtroppo, mentre i nuovi titoli di alcuni film ci sono noti, non si diceva nulla del destino di The Aryan.
La fiera domada – questo è il titolo che compare sulla copia sopravvissuta – è chiaramente diverso da ciò che gli spettatori americani videro nel 1916; non sappiamo chi contribuì ad adattarlo al “pubblico odierno”, né quali siano state le modifiche apportate per l’occasione. Ci sono tuttavia alcune tracce in proposito alla Library of Congress, dove si trova un trattamento di Sullivan (circa 6000 parole) e la trascrizione delle 111 didascalie originali (non c’è invece una vera e propria sceneggiatura, né una descrizione dettagliata della trama). Quasi tutte le scene originali sono contenute nella versione pervenuta fino a noi; molte sequenze e inquadrature sono state limate; alcune parti – il rapimento di Trixie e lo scontro finale – appaiono poco coerenti. Un confronto fra questi documenti rivela che le istanze più ovvie di antagonismo razziale erano già state emendate dalla versione del 1916 (non è chiaro in quale misura ciò sia stato dovuto agli eventi sul confine fra Stati Uniti e Messico). Ad esempio, mentre il trattamento descrive specificamente la masnada di Steve Denton come composta “per lo più da mezzosangue o da messicani, la feccia dell’inferno”, la didascalia corrispondente elimina qualsiasi riferimento a particolari gruppi etnici. Il termine “ariano” non è usato qui in opposizione ad altri gruppi razziali, quanto per aderenza a un epigramma che appare in entrambi i testi come codice fondamentale di questa filosofia: “le nostre donne saranno protette; un uomo di razza bianca può dimenticare tante cose – amici, dovere, onore – ma questo no, non può dimenticarlo”.
In altre parole, la minaccia di una contaminazione fra le razze risveglierà comunque lo spirito del vero ariano, anche del più corrotto. Il trattamento di Sullivan fa esplicita menzione di alcuni eventi-chiave nella storia degli ariani, in particolare l’ammutinamento del Sepoy e il “muro di Lucknow”, al quale farà diretto riferimento in un altro film prodotto da Ince, The Beggar of Cawnpore. Ma quella storia del “conservare l’ultima cartuccia” non era contenuta nel film, nel quale si ricorda semplicemente che “quando gli uomini della nostra razza hanno combattuto per le loro donne, e quando tutto era contro di loro e il momento fatale era ormai giunto, loro le uccisero piuttosto che lasciarle nelle mani degli assalitori”. Viene qui in mente, è ovvio, The Birth of a Nation, ma anche – in un altro contesto – il gesto finale di John Carradine in Ombre rosse (Stagecoach, 1939). Così, allorché Mary implora Steve Denton di porre fine al caos e lui sembra trascurare il suo dovere di ariano (è il momento più sconvolgente nel testo di Sullivan), lei si prepara a seguire lo stesso destino di Mae Marsh in The Birth of a Nation.
La storia di sfondo stabilisce una base misogina per il comportamento di Steve Denton, senza alcuna allusione a pregiudizi razziali, e il resto del film avrebbe potuto facilmente risolversi in un semplice appello alla cavalleria — l’uomo forte che protegge l’innocenza — tipico di tanti altri western. Ma non si può ignorare il fatto che Sullivan abbia modellato la sua trama sul mito ariano così come fu sviluppato da Widney e da altri, in particolare il suo presupposto della gerarchia razziale. Alla fine, l’odio di Steve Denton per le donne passa in secondo piano rispetto al potere della sua essenziale identità ariana. Ma questo non è Hell’s Hinges, dove il fuorilegge redento si allontana a cavallo con la fanciulla di cui si è evidentemente innamorato. C’è un domani per il personaggio di Hart, e per la comunità di migranti alle quale egli è corso in aiuto. Ma, così come accade in altri western di Hollywood aderenti al codice Hays (viene in mente Ethan Edwards in Sentieri selvaggi), non sarà un futuro insieme a una donna.

Richard Koszarski

La copia
Nel 1917 la Triangle Distributing Corporation (TDC), società distributrice dei film di William S. Hart in Sud America, fece uscire The Aryan a Buenos Aires e Montevideo sotto il titolo El ariano, con grande successo di pubblico. Negli anni Venti – l’inserto di un telegramma suggerisce il 1923, ma non ci è stato possibile confermarlo – la pellicola fu rieditata con il nuovo titolo La fiera domada (“La belva domata”). A parte il radicale cambio di nome, non c’è modo di sapere se ci siano differenze fra le due versioni, e a dire il vero non abbiamo trovato alcun riferimento a un film distribuito in Argentina con questo titolo durante il decennio in questione. Forse la nuova sensibilità post-bellica, più incline alla spiritualità e più critica nei riguardi del positivismo del diciannovesimo secolo, richiedeva una versione in cui gli aspetti razziali della vicenda erano rimossi? O forse, più semplicemente, si trattò di uno stratagemma per presentare il film come se fosse un William S. Hart nuovo di zecca? Questa pratica era molto diffusa fra i distributori e gli esercenti già dagli albori del cinema, e la TDC vi fece ampiamente ricorso dal 1917.

Come spiegato da Richard Koszarski nella sua nota al film, The Aryan e La fiera domada sono due film molto diversi; l’esplicito razzismo dell’originale è sostituito da problematiche di genere (peraltro già presenti nel film del 1916) nell’edizione argentina. Dopo essere stato tradito, Esteban Dentón sviluppa un profondo odio non solo verso la razza bianca, ma contro l’umanità in generale, soprattutto le donne. Là dove la versione americana dice “Odio, odio per lei! Odio per loro! Odio per tutta la razza bianca!”, la didascalia argentina dice “Su corazón rebosaba de odio… odio a todo el género humano” (“Il suo cuore era pieno d’odio, odio contro l’intero genere umano”). “Dev’esserci stato un errore, gli uomini bianchi soccorrono sempre le donne”, dice la ragazza nella versione originale, ma nella riedizione una didascalia spiega che “Esteban Dentón no puede olvidar la falsedad que ha recibido de aquella otra mala mujer” (“Esteban Dentón non può dimenticare la falsità di quell’altra donna malvagia”). Curiosamente, il tentativo argentino di cancellare il tema del conflitto razziale ha avuto come effetto un film ancora più sessista dell’originale.
Fernando Martín Peña fu il primo a identificare La fiera domada come The Aryan quando la copia fu scoperta nella collezione di Manuel Peña Rodríguez, oggi conservata presso il Museo del Cine Pablo C. Ducrós Hicken a Buenos Aires (la stessa collezione in cui fu rinvenuta nel 2008 una versione quasi completa di Metropolis). Il materiale sopravvissuto consiste in un internegativo 16mm ricavato negli anni Settanta dagli elementi in nitrato di Peña Rodríguez, stampato senza alcuna pulitura; i suoi difetti possono essere appena alleviati con strumenti digitali. La ricostruzione qui presentata è generalmente fedele al materiale argentino, che forma la maggior parte del materiale esistente. Sono anche incluse due sezioni inviate da Mike Mashon a nome della Library of Congress: un negativo 35mm in nitrato (82 metri) e un frammento a 16mm (12,8 metri). Altri 42,7 metri sono stati presi da una copia 16mm del film antologico The Saga of William S. Hart, per gentile concessione della Blackhawk Collection all’Academy Film Archive e di Serge Bromberg (Lobster Films). Richard Koszarski ci ha inviato utilissime fotografie, utilizzate per sostituire alcune delle sezioni mancanti; grazie a Kevin Brownlow siamo anche riusciti a consultare le didascalie originali del film, nonché una copia digitale del Picture-Play Magazine (maggio 1916), dalla quale abbiamo ottenuto altre importanti immagini.

Andrés Levinson

regia/dir: William S. Hart.
sogg/story, scen: C. Gardner Sullivan.
photog: Joe August.
cast: William S. Hart (Steve Denton), Gertrude Claire (Mrs. Denton), Charles K. French (“Ivory” Wells), Louise Glaum (Trixie, “The Firefly”), Herschel Mayall (“Chip” Emmett), Ernest Swallow (Mexican Pete), Bessie Love (Mary Jane Garth).
prod: Triangle, supv: Thomas H. Ince.
dist: Triangle.
uscita/rel: 09.04.1916 (5 rl.).
copia/copy: DCP, 45′ (da/from 16mm neg., 972 ft., 36′ / 35mm neg., 269 ft., 3′ / 16mm pos., 30 ft., 1′ / 166mm pos., 140 ft., 5′; 18 fps); did./titles: SPA, sbt. ENG.
fonte/source: Museo del Cine Pablo C. Ducrós Hicken, Buenos Aires; Library of Congress Packard Center for Audio-Visual Conservation, Culpeper, VA; Lobster Films, Paris.

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